Non sempre le gesta di un campione sono scritte negli annali.
Ci sono gare e prove che non conosce nessuno ma che rendono il campione un eroe come il Nivola.
– FERITIIIII! – L’urlo arrivò dal nulla e per quanto forte era sovrastato dal boato dell’artiglieria che da ore riempiva l’aria. Pioveva a dirotto e la nebbia avvolgeva la trincea e l’aria in maniera totale.
– FERITIIII! – Questa volta il grido fu udito leggermente più nitido. Il Capitano Poretti cercò di individuarne la provenienza ma inutilmente. Il frastuono era troppo elevato e il rumore rendeva impossibile qualunque orientamento.
– Sentinella a me! – Ordinò e dopo alcuni secondi un ragazzino gli fu affianco. – Ferri, usa il binocolo e scovami gli urlatori. Dobbiamo portarli in salvo. – Disse in maniera decisa e poi andò a riprendere il suo posto accanto agli uomini.
Il Carso non era un ambiente facile. Il terreno veniva modellato dalle piogge frequenti anche e sopratutto d’estate. Sfondare da quel lato del Monte Sei Busi non sarebbe stato facile. Poretti per scavare quella trincea aveva spremuto gli uomini fino allo stremo perché il solco nel terreno franava di continuo proprio grazie alla malleabilità dello stesso. Avevano dovuto ricorrere al cemento per non essere inghiottiti dal fango e questo gli era costato molto in fatto di energie e morale. Quell’avamposto però era troppo importante e non poteva essere perso. Riuscire ad aprire una breccia a sud nel fronte Austriaco significava prendere Gorizia e togliere al nemico un altro bel pezzo d’Italia.
Poretti era a capo di un battaglione della III Armata del Duca D’Aosta che fino a quel momento non aveva mai perso una battaglia e non sarebbe stato certo lui a rompere la tradizione dell’Invitta.
Il giovane Ferri sgattaiolò in una delle feritoie della trincea e non ci mise molto ad individuare i suoi compagni in ritirata. Nonostante la giovane età era una vedetta espertissima grazie alle giornate di caccia trascorse con il nonno sui monti della Marsica.
– Capitanooo! Uomini i ritirata da sud est sono in sei. – Urlò per farsi sentire.
– Fuoco di copertura. Aiutiamoli! – Ordinò Poretti.
Immediatamente dieci fucili presero a sparare in quella direzione e pian piano le figure apparvero dal nulla in maniera affannosa. Ferri aveva contato giusto solo che non aveva riferito che quatto uomini, dei sei segnalati, erano feriti e venivano trascinati dagli altri due.
Poretti non ci pensò su due volte e saltò fuori dalla trincea per aiutare i suoi uomini. – Continuate a sparare. Non vi fermate.
Era seguito da un altro soldato che non riusciva però a vedere perché i suoi occhi erano fissi sull’obiettivo. Bisognava fare in fretta, il fuoco amico non sarebbe durato ancora per molto.
– Capitano… Caporale Rinaldi. Sono feriti gravi… – riuscì ad ansimare il più alto in grado non appena Poretti giunse da loro.
– Vi aiutiamo noi ora. Forza sbrighiamoci sono solo pochi metri. – Esortò Poretti e sia lui che il suo compagno di avventura presero a trascinare ognuno un uomo in maniera forsennata. Il Capitano notava la scia di sangue che scivolava via sulla pietra bagnata formando rivoli rosso porpora che sparivano improvvisamente nel terreno. Non guardava il volto del suo assistito e non guardava dietro di sé. Cercò di estraniarsi a da tutto e di ripetere, in maniera meccanica, i movimenti che gli permettevano di muoversi a ritroso verso la trincea.
Ci cascò dentro portandosi il corpo del soldato con lui e così fecero gli altri.
– Chiamate il Dottore presto. – Ordinò mentre riprendeva fiato.
Il Dottor Falchi aveva il suo bel da fare. Era accompagnato da due infermieri appena ventenni che vomitavano in continuazione alla vista di una qualsiasi ferita. Molto spesso si sentiva inutile perché non era per nulla facile curare chi veniva ferito. Le condizioni igieniche erano disastrose e lui rattoppava come poteva con garze e medicine che scarseggiavano e operazioni di sutura che avrebbero necessitato di ben altri ambienti. In più doveva tenere il più lontano possibile i cadaveri dai vivi per non causare infezioni e per questo si era dovuto attrezzare con una fossa comune che lo aveva svuotato di ogni briciolo di umana dignità in quella battaglia che sembrava non finire mai.
Diede una rapida occhiata ai nuovi arrivati e il suo occhio allenato individuò subito il più grave. Un soldato era ferito all’arteria femorale e immediatamente Falchi andò a stringergli la gamba con una delle cinghie di cuoio strappate ai manici dei fucili che utilizzava come lacci emostatici. Dei quattro era il più grave e il pallore del volto ne tradiva lo stato. Gli altri tre avevano ferite al costato e ad un braccio.
– Chi sono? – Chiese il Dottore?
– Martini, Reali, Fabbris e il Maresciallo Cadorna… – disse preoccupato uno dei soldati rimasti illesi.
– Il Maresciallo Cadorna? Il nipote del Generale? Non possiamo permettere che muoia! – Esclamò il Capitano guardando il Dottore con occhi imploranti.
– Capitano è grave, gravissimo. Chissà quanto sangue ha perso e non posso né operarlo qui né azzardare una trasfusione in queste condizioni… Mi capite? – Chiese il Dottore. – Dovremmo portarlo ad Udine, in ospedale, per avere qualche speranza. Ma il carro feriti è al Campo e ci vorranno quattro ore per arrivare in città. Mi dispiace dirlo ma il Maresciallo è spacciato.
– Io ce ne metto due!
La voce arrivò secca alle orecchie del Capitano che solo allora si ricordò del soldato che lo aveva seguito nell’operazione di salvataggio.
– Nivola non dire stupidaggini. – Lo ammonì il Dottore che evidentemente lo conosceva.
– Dottore lasictelo parlare… – insisté il Capitano.
– Ma Capitano, Nuvolari lo conosco. Non è capace a guidare. Ha già distrutto tre carri feriti non possiamo affidare a lui questo incarico.
– Ce la faccio vi dico. Ce la faccio Capitano. – Ripeteva il Nivola imperterrito.
– Due ore potrebbero essere sufficienti Dottore? – Chiese il Capitano con un filo di speranza.
– Forse… ma io non mi fido. – Continuò il medico.
– Abbiamo alternative? – Chiese il Capitano guardandolo negli occhi e lui disse di no con la testa.
– Nuvolari allora è deciso accompagni tu Cadorna ad Udine. Voi, Dottore, lo accompagnate. Andate. Qui abbiamo una battaglia da vincere.
Falchi sgranò gli occhi ma non si mise a discutere gli ordini. I feriti furono trasportati al campo dove c’era il comando e l’ambulanza chirurgica. Falchi consegnò gli uomini meno gravi e, dopo aver fatto uno sbrigativo rapporto al suo diretto superiore, prese l’occorrente per una trasfusione e si diresse verso i carri. Nuvolari e il Maresciallo Cadorna non c’erano.
– Dottore da questa parte, venite! – Chiamò Nuvolari. Falchi gli corse incontro.
– Dov’è il mezzo? – Chiese impaziente.
– Andiamo con l’autocarro da trasporto… –
– Nivola ma che cosa dici? Sei matto? – Urlò il Dottore arrabbiato.
– I suoi lo hanno già preparato. Sterza meglio ed è più potente. Fidatevi di me vi prego.
Il Dottore salì dentro il mezzo telato e vide come era stato sistemato il Maresciallo. Il lettino era fissato al telaio e il corpo, legato al lettino, risultava praticamente immobile.
Da qui fino a Monfalcone praticamente su un carraio impraticabile con questo fango e da Monfalcone ad Udine su strada… non ce la faremo mai. Pensò il Dottore maledicendosi. Il giovane Cadorna respirava appena, aveva urgentemente bisogno di sangue.
Nuvolari guidava leggero e il carro Fiat 18 BL sembrava silenziosissimo tanto era forte il rumore della battaglia. I suoi passeggeri almeno erano all’asciutto. Lui stringeva le mani sul volante e guardava solamente il sentiero fisso davanti a sé, incurante della pioggia che lo bagnava nel suo posto di guida all’aperto e dei rumori della guerra. Aveva fatto una promessa: battere il tempo e la morte.
Andava giù deciso su una via appena tracciata ma si sentiva stranamente calmo. Il motore e il cigolio delle balestre degli ammortizzatori lo calmavano e lo rendevano sicuro di sé.
Il Dottore si affacciò da dietro al rimorchio.
– Non ce la faremo mai, lo sai vero?
– Ce la faremo Dottore vedrete. In fondo questi carri sono come i muli: se li tratti bene loro ti danno il massimo e non ti tradiscono mai. E io di muli me ne intendo.
– I muli sono lenti… – lo riprese Falchi.
– Questo lo dite voi Dottore. Lo avete mai visto un mulo correre? – Gli chiese il Nivola.
– A Torino non ce ne sono…
– Al mio paese, a Castel D’Ario ce ne sono e io ne ho ferrati tanti. Quando partono volano e non si fermano più. Come me. Voi pensate a tener vivo il Maresciallo. Io penserò a correre.
Il Dottore tornò dentro e si mise ad analizzare meglio la ferita del paziente. Il proiettile era dentro e andava rimosso. Aveva con sé due sacche di sangue, conservate secondo il metodo Lewisohn, ma erano poca cosa rispetto alla perdita che aveva subito il giovane.
Era esanime e freddo. Falchi si ripromise di tentare una trasfusione non appena avessero abbandonato la montagna. Intanto gli somministrò della penicillina e si sedette sul fondo del carro cercando di non addormentarsi per il dondolio. Dopo mesi di trincea quello era il primo momento di pace.
Nivola sentiva l’eco dei colpi sparati sul Carso sempre più lontano e anche la pioggia aveva perso d’intensità. Il fondo stradale migliorava e ormai lui teneva il Fiat 18 BL su due binari che soltanto il suo talento riusciva a vedere . Il suo corpo sembrava in perfetta sintonia con il mezzo quasi ne conoscesse ormai limiti e possibilità. Guidava sempre più sicuro contando nella sua mente i secondi e i minuti. A Palmanova diede fondo a tutte le sue energie e a quelle del carro. Volava come mai nessuno prima e come mai nessuno dopo, parlando al destino e sputandogli contro i cavalli del motore. Un rettilineo in meno, una curva in meno… pensava. La pianura dolce di quella zona del Friuli gli ricordava casa e ormai era arrivato. Riconobbe l’ospedale dal tricolore con lo stemma sabaudo che garriva in Via Parrachiuso.
La sua mente aveva calcolato due ore e sette minuti e pregò Dio che non fossero stati troppi.
Accorsero in molti verso il carro dal quale non proveniva nessun rumore. Nuvolari era esausto e indicava il telone del rimorchio a chi gli chiedeva informazioni. Scese piano dal posto di guida appoggiandosi al telaio per non cadere. Si fece spazio tra i soldati per potersi sincerare delle condizioni dei suoi passeggeri. Li vide stesi uno sull’altro legati dall’ago nelle vene, per sempre e dal quel filo rosso e sottile che era prezioso come la vita. Poi svenne.
A Brescia c’era il sole quel 13 aprile del 1930. Tazio Nuvolari aveva sul cofano della sua Alfa Romeo 6C il mazzo di fiori del vincitore. Abbracciava il suo “navigatore” Guidotti e sorrideva per l’impresa: Vittoria della Mille Miglia e nuovo record di velocità media di 100 km/h. Stringeva le mani di tutti anche del suo avversario Varzi che aveva staccato di dieci minuti e non voleva scendere dalla sua auto… rossa. Tra i fiori vide un foglietto bianco e lo afferrò prima che volasse via.
Nivola, mi avete stupito anche oggi ed è tempo che io perda la mia stupida ostinazione a non fidarmi di Voi.
Con immenso affetto e gratitudine
Dottor Vittorio Falchi
Nuvolari guardò fra la folla freneticamente, si mise in piedi sul cofano dell’Alfa tra la folla osannate che aveva scambiato il gesto per un vezzo del Campione. Lo vide quasi subito, magro come un tempo vestito di bianco candido quasi a rifiutare lo sporco della guerra. Camminava di spalle con la giacca tirata e con una manica vuota. Sventolò il biglietto per chiamarlo, ma il rumore di oggi era lo stesso della trincea di allora. Lui si voltò come se avesse sentito il richiamo e Nuvolari si mise sull’attenti e lo salutò come un soldato fa con un superiore. Falchi ricambiò il saluto con il braccio che gli era rimasto e batté i tacchi per rispetto al coraggio dell’eroe.
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Cenni storici presi da La Migliore Gioventù (Dario Ricci, Daniele Nardi. Infinito Edizioni – 2015 Modena)