Pippo – Il Maradona della Tuscia

Tratto da una storia vera

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Pippo per tutti era il Maradona della Tuscia. Lui giocava solo per soldi e se giocava vinceva.
Un talento infinito e una vita sprecata perché non sempre il talento è un dono, ma molto spesso è una maledizione.

– Questa sera non giochi!

Pippo si guardava il ginocchio sinistro gonfio e arrossato e non riusciva a distogliere lo sguardo da quel tratto della sua gamba che, in quel momento, era il centro dei suoi problemi.

– Che significa non gioco? – Chiese retoricamente sapendo benissimo quale fosse la risposta: non era più un ragazzino e ormai i segnali del suo corpo li conosceva bene.

– Non fare il finto tonto Pippo. Non con me. Ti conosco da quando sei nato e ti ho avvisato un milione di volte di smetterla, non mi hai mai ascoltato. Non lo facevi quando venivi alle visite con tua madre e non lo fai ora che le visite le facciamo di straforo. Sei arrivato al confine. Se lo sorpassi non torni più indietro. La perdi la gamba Pippo.

– Dottore ma come faccio?

Un singhiozzo riuscì ad oltrepassare la cortina di falsa indifferenza che Pippo metteva ed ogni visita medica, come se bastassero sempre gli anti dolorifici a cancellare i problemi.

Il Dottor Fresi era stato il suo pediatra e Pippo non aveva mai voluto farsi visitare da nessun altro se non da lui. Adesso Fresi era in pensione, faceva il nonno a tempo pieno e si occupava, non ufficialmente, solo di Pippo che continuava imperterrito a non fidarsi di nessun altro.

Pippo era un abitudinario, ma un abitudinario anomalo perché la sua routine si basava tutta su degli equilibri precari i quali, a loro volta, poggiavano tutti su quella gamba sinistra.

Pippo era stato un bambino monello il giusto: un biondino tutto pepe e pallone. Non conosceva altro divertimento. A scuola aveva sempre galleggiato e mai nuotato come si deve, ma comunque nessun problema. Figlio unico e per questo poco incline alla chiacchiera, ma grazie al pallone non aveva mai avuto difficoltà a farsi degli amici. Poi a undici anni aveva perso entrambi i genitori in un incidente d’auto dove lui era rimasto miracolosamente illeso e da quel giorno tutto era cambiato. Le parole del bambino da poche erano diventate nulle e i nonni, troppo anziani e con il cuore spezzato, lo avevano viziato all’inverosimile.

A Pippo non interessava la scuola, non interessavano gli amici o le ragazze, non gli interessavano le discoteche o i motorini o le auto. A Pippo interessava solo giocare a pallone. Cortili, scuola, oratori o campo non facevano differenza. Era passato rapidamente dal Murialdo, una squadra parrocchiale, alla Viterbese e qualche società di A e B lo aveva adocchiato. Ogni volta però che arrivava una proposta lui poneva sempre la stessa clausola. – Io voglio giocarle tutte o non vengo da voi.

Nessuno accettava il ricatto di un moccioso e Pippo non si mosse mai da Viterbo.

Una sera, quando aveva già quindici anni, fu invitato ad una partita di calcetto e lì Pippo trovò la sua dimensione. Sembrava nato per il calcio a 5. Il suo sinistro fece faville quella sera e per dieci sere consecutive: a quindici anni la fatica è un vocabolo ignoto. Alla fine della partita della decima sera uno della squadra avversaria lo prese da parte e gli chiese di partecipare ad un torneo natalizio.

Il premio per la squadra vincitrice era di due milioni di lire: duecentomila lire a testa per i dieci componenti della squadra. Pippo accettò e quello fu il primo di una interminabile serie di tornei vinti. Man mano che cresceva diventava più abile e il suo nome iniziava ad essere noto in tutta la Tuscia. Le varie compagini amatoriali facevano a gara per accaparrarselo e lui pretendeva ingaggi sempre più elevati e rigorosamente pagati in anticipo. Chi pagava però era sicuro di vincere e Pippo non tradiva mai le aspettative.

Aveva un quadernino con sé nella sua borsa dove annotava le entrate e le sue statistiche. In un paio d’anni lievitarono entrambe a cifre astronomiche.

Pippo era ormai per tutti il Maradona della Tuscia. I guai arrivarono intorno ai ventisei anni quando Pippo conobbe Alessia ad una festa. Non era esperto lui e non era esperta lei in faccende di cuore. I due si trovarono ma forse nessuno dei due fu mai veramente innamorato dell’altro, il fato però volle altro, volle Michele e Gabriella due gemelli che colsero di sorpresa e destabilizzarono la giovane coppia. I coetanei si laureavano e poi iniziavano a lavorare e poi si sposavano e poi mettevano su famiglia. Loro due avevano bruciato le tappe, tanto che Pippo, alla soglia dei trenta, aveva l’aria di un quarantacinquenne navigato. I capelli biondi non c’erano più e neanche il pepe. Rimaneva il sinistro che sfamava una famiglia, dava un tetto ai bambini e pagava le bollette. Pippo non sapeva fare altro.

Giocava e veniva pagato in nero da chi voleva apparentemente soltanto divertirsi.

Per far fronte alle esigenze sempre crescenti della famiglia, Pippo era arrivato a giocare anche tre o quattro tornei contemporaneamente e a massacrare il suo corpo all’inverosimile. Ad ogni gol i suoi compagni di serata urlavano e lo abbracciavano festanti, lui non rideva mai. Correva a riprendere il pallone e lo metteva al centro del campo in fretta perché doveva sbrigarsi, perché di lì a poco sarebbe dovuto essere in un altro campetto, in un’altra partita. I terreni di gioco pessimi infiammavano i suoi muscoli ed i suoi tendini, specialmente quelli delle ginocchia, sollecitati da arresti repentini e scatti fulminei. Pippo non aveva tempo di allenarsi era troppo impegnato a giocare e soprattutto non aveva tempo di curarsi.

Una sera, dopo una finale dove aveva ridicolizzato la squadra opponente, gli avversari lo aspettarono nel parcheggio poco fuori il circolo sportivo e lo gonfiarono di botte rubandogli tutto anche le mutande e rompendogli due costole con i calci.

Pippo si imbottì di Aulin e la sera dopo giocò ancora segnando sette delle nove reti con cui la sua squadra vinse.

Con il suo sinistro e la sua rabbia Pippo tirava su dai venticinque ai trenta milioni all’anno. Poi con il passaggio all’euro le sue tariffe, come tutte le tariffe d’Italia, erano raddoppiate ma il rapporto spese guadagni era rimasto lo stesso. Cercava i tornei corti che gli permettessero di avere più impegni l’anno per poter guadagnare più in fretta e di più. Alessia non lavorava e i gemelli crescevano. C’erano la scuola, l’attività sportiva, i vestiti, le scarpe, la spesa e la casa, ma soprattutto c’era l’età. Più invecchiava, più i tornei calavano perché i suoi coetanei sceglievano di non farne e per guadagnare Pippo doveva partecipare a quelli dei giovani che sopperivano alle carenze tecniche con un’esuberanza che lui non aveva più.

Rimaneva sempre il Maradona della Tuscia, ma non era più determinante come un tempo e ora doveva lui cercarsi le squadre per poter racimolare i soldi per campare.

Questa manifestazione però era stata organizzata dal proprietario di un centro commerciale che stava aprendo in battenti proprio accanto ad un noto circolo sportivo viterbese. Il primo premio era un buono da centomila euro da spendere nei negozi e nel supermercato del centro commerciale. C’erano squadre da tutto il Lazio. I Green Berets di Pippo erano arrivati a giocarsi la finale con qualche difficoltà, ma c’erano. Pippo aveva preteso il 40% della vincita. Quarantamila euro da spendere gli avrebbero tolto preoccupazioni per almeno un paio d’anni e magari avrebbe trovato il tempo per curarsi un po’.

Pippo aveva dato l’anima. Era capo cannoniere con 122 reti in 18 partite di fase eliminatoria e 43 nei play off. Avrebbe vinto il premio anche come miglior giocatore che consistevano entrambi in altri cinquemila euro. Ma nella semifinale il ginocchio aveva ceduto e ora lui era seduto sul lettino, nell’appartamento del Dottor Fresi, e scuoteva la testa sconfitto.  

– Quale è il premio per la finalista? – Chiese il Dottore, con evidente intenzione di far accontentare il suo paziente.

– Non c’è premio. Vice solo la prima. – Fu la risposta mogia.

– Pippo, – sospirò il Dottore – hai il tendine rotuleo sfilacciato da tempo. La guaina è infiammata e il rischio che si spezzi è veramente alto per non dire che è una certezza. Dovresti stare fermo. E intendo fermo, sdraiato a letto con un tutore fino a che non passa l’infiammazione e poi comunque operarti perché il tendine non reggerà.

– Manca solo una partita Dottore

– Una partita? Non hai capito? Quel tendine si regge con lo sputo… basta un solo tiro. Questo linguaggio lo capisci meglio? – Protestò il vecchio sinceramente preoccupato.

– Pippo io non mi sono mai permesso di dirti nulla in tutti questi anni. Ma se tu domani giochi io ti denuncio per tutti i soldi in nero che prendi. – Urlò il dottore minaccioso.

– Conoscevo i tuoi, conoscevo i tuoi nonni e conosco te. Giochi per rabbia e perché ti sottovaluti. Tu ti sei salvato in quell’incidente e se ti sei salvato un motivo ci sarà e di scuro non è quello di romperti un ginocchio in un campo di calcetto della periferia di Viterbo. Hai una famiglia, due ragazzi che hanno bisogno di un padre non un di un eterno ragazzino. E tu… tu devi imparare a fidarti degli altri. Non sei sempre tu che deve risolvere le cose… anche perché come vedi non ci riesci. Quanto tempo avresti voluto continuare a giocare? E dopo? Non sei un professionista, non guadagni milioni di euro, sei solo uno sfigato! Sì, sei uno sfigato. Avevi un talento unico e lo hai buttato al secchio. E adesso vattene. Domani chiamo un mio amico all’Isokinetic di Bologna e ti fisso una visita seria.

Pippo uscì e si strinse nella giacca. Il freddo era pungente e le lucine alle finestre e sulle vetrine dei negozi rendevano la sera carica dell’atmosfera natalizia. Con il natale era iniziata la sua carriera e con il natale si chiudeva: i soliti strani scherzi del destino.

Pippo annusò il freddo. Gli piaceva il profumo dell’inverno. Si ricordò dei natali passati con tutta la famiglia quando i regali erano solo per lui, unico bimbo dagli occhi sognanti. Si ricordò dei nonni e improvvisamente pianse tutta la nostalgia ed il dolore che negli anni aveva accumulato. Non si era fermato mai, non si era fermato per non mettersi difronte alla sua vita.

Tutti gli avvenimenti dopo la morte dei suoi genitori gli erano scivolati addosso grazie al calcetto e all’indifferenza che il pallone gli aveva creato. Avrebbe potuto essere qualcuno e invece ora doveva ricominciare da capo. Il corpo reclamava la sua tariffa per tutto quello che gli aveva donato. Il corpo era maturato prima del cervello e visto che questo non si decideva a crescere aveva fatto lui il passo decisivo.

Guardò le stelle che si scorgevano a malapena, nascoste dalla luce dei lampioni e affidò le sue lacrime alla loro luce affinché le facessero arrivare alle anime dei suoi genitori. Era la fine e l’inizio insieme e doveva parlare con sua moglie.

Si diresse passeggiando verso casa passando per le vie della sua città: aveva giocato in ogni angolo di Viterbo e sorrise di questo. Una famiglia veniva dalla parte opposta: papà, mamma e due bimbi. Si tenevano tutti per mano e Pippo per un attimo li invidiò. Lui di momenti così ne aveva vissuti pochi con i suoi bambini, chiuso dietro ad un muro falso. Uno dei due bimbi aveva in mano uno di quei piccoli palloni delle squadre di calcio e chiedeva al papà se lo avessero potuto appendere all’albero. La sorellina fece per prenderlo dalle mani del fratello e il pallone cadde rotolando per la strada. Il bambino, senza pensarci due volte, si precipitò dietro alla sfera per riprenderla.

In quel momento Pippo sentì il rombo del motore dietro le sue spalle e vide il bimbo illuminato dai fari dell’auto che sopraggiungeva. Sentì anche l’urlo della madre, mentre tutti i muscoli del suo corpo si contraevano pronti a saltare. Era lì a pochissimi centimetri da lui e l’istinto gli aveva detto di farlo. Si tuffò come un portiere spingendo il bambino dall’altra parte della strada. L’auto lo colpì all’anca facendolo rotolare per decine di metri. Pippo in quel momento capì che lui era sopravvissuto tanto tempo prima per poter salvare la vita quel bambino di cui mai avrebbe saputo il nome e di cui mai più avrebbe visto il sorriso.

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