Zandegù e la vittoria di Dio

Giro della Campania 1967

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Anno: 1967. Luogo: Agerola, comune a ridosso della Costiera Amalfitana.

L’occasione è il Giro della Campania, corsa in linea dura, selettiva: da uomini veri. Lo sport ovviamente il ciclismo, quello di una volta: lo sport della gente.

Eh sì perché, una volta, la gente aspettava il passaggio dei corridori non per farsi vedere in televisione, ma per sostenere moralmente e fisicamente il ciclista. L’atleta era uno del popolo che, proprio come il popolo, lavorava duro per arrivare alla fine di una corsa e una volta fra simili ci si aiutava per vivere. Ci si abbracciava per far sentire la vicinanza e la disponibilità a dividere i pesi della vita: quattro braccia sono sempre meglio di due nella difficoltà. La gente la vedeva la fatica del ciclista, la vedeva sul volto e nel sudore e la riconosceva perché era come la sua. E allora sì, giù per le strade a dare una mano, a spingere chi ce la stava mettendo tutta con il solo intento di alleviargli, per qualche metro, la fatica di una salita.

Ad Agerola ci sia arriva dopo 12 km di salita con una pendenza media del 6 percento: un inferno nel sole di primavera.

Quei 12 km sono l’ultimo strappo prima dell’arrivo e sono una vera tortura che giunge alla fine di un percorso ostinato come la terra che lo ospita. La strada sale in serpentina da Furore con un panorama mozzafiato, per diventare un lungo ed interminabile rettilineo negli ultimi 3 km.

Il gruppo è sfaldato ed in testa, da soli, ci sono tre uomini: Vittorio Adorni, vincitore del Giro d’Italia due anni prima; il tedesco Rudi Altig, Campione del Mondo in carica; e Dino Zandegù da Rubano.

Vittorio ed il Tedesco sono due corridori totali, gente abituata a grandi sfide e animati entrambi da sana rivalità agonistica. Zandegù è uno di quelli che è nato per essere gregario; uno che ama la velocità in pianura, ma che il più delle volte la usa per tirare le volate.

Adorni inoltre era stato Capitano di Dino fino all’anno prima e per Zandegù continuava ad esserlo anche in quei 12 km nonostante ora corresse per un’altra squadra. Dino quindi, da buon gregario, si mise a fare l’andatura per agevolare il suo Capitano.

Due caratteri simili Adorni e Zandegù: due estroversi che amavano divertirsi sia in bici che fuori dalle gare. Erano sempre pronti alla battuta tanto che Sergio Zavoli li voleva spesso come ospiti nel suo leggendario “Processo alla tappa”.

Ma ora, sotto il sole e sotto il giogo di quella interminabile salita, di divertente c’era ben poco.

– Vai Dino!Vai.

Zandegù non capisce se quello che ha sentito è l’ennesimo grido d’incitamento della gente lungo la strada o altro.

Si gira verso Adorni il quale glielo grida di nuovo.

– Vai Dino!

E mentre lo dice gli fa cenno di non averne più. D’altra parte non è che Zandegù ne abbia ancora. Per un passista niente è peggio di una salita. Eppure la gente lo riconosce, lo applaude e lo incita e lui non vuole deluderla, anche perché a vincere sarebbe un tedesco il quale, pragmaticamente, è avanti di qualche decina di metri.

Zandegù si volta nuovamente, per rispetto e per avere conferma di aver capito bene. Adorni però ha lo sguardo fisso sulla ruota davanti sommerso dalla fatica. La folla continua a gridare il suo nome e allora lui va. Dando fondo a tutto quello che ha parte all’inseguimento di Altig il quale sale con un passo regolare conscio della sua solitudine: due italiani non lo aiuteranno mai ad arrivare in cima.

Improvvisamente, dopo l’ennesima curva, Zandegù non sente più nessun rumore. Alza lo sguardo verso il suo avversario e vede con i suoi occhi il mostro.

Lo spettacolo è irreale. Alle sue spalle c’è il mare e davanti a lui un rettilineo in salita che sembra perdersi nell’infinito. La folla non c’è più, come se anche essa fosse impaurita da quella strada e non avesse avuto il coraggio di arrivare fin la.

Zandegù si volta nuovamente per cercare Adorni e per capire se la strada spaventa anche lui. Vittorio arriva qualche secondo dopo e il suo volto ha uno sguardo adirato.

– Vaiii! Diobono! Sei ancora qui? – lo rimprovera.

Dino allora si gira e si concentra sulla ruota del suo avversario. Si ricorda delle sue prime corse e degli sforzi fatti per arrivare ad essere un professionista. Cerca dentro di sé la forza per superare il suo limite e riuscire ad arrivare in cima.

– Ogni pedalata è un metro in meno – pensa ed inizia a contare da 3000 al contrario gridando i numeri ad alta voce.

Altig dal canto suo non è che se la passi meglio. La maglia iridata pesa e impone di essere davanti, esige che chi la indossa sia protagonista e dimostri sempre di essere degno di quei colori.

Ma quello che pesa di più sono le gambe. Anche se non li vede lui sente i numeri urlati di Zandegù sempre più vicini. Quelle grida lo innervosiscono e gli fanno perdere la concentrazione.

La salita sembra veramente infinita e ora anche le grida di Zandegù si affievoliscono. La fatica è mostruosa e corrode velocemente la forza di volontà.

Poi improvvisamente Dino vede sul ciglio destro della strada un puntino che assomiglia vagamente ad una persona.

Gli occhi accecati dal sudore che cola e la effettiva distanza impediscono di vedere bene, ma comunque la speranza si riaccende.

Una persona potrebbe significare molto in quell’inferno. Essa potrebbe dare la spinta finale per superare gli ultimi metri che lo separano dal suo avversario.

Ed allora, con il vigore del naufrago che scorge in lontananza una nave, Dino si alza sui pedali e punta deciso verso il puntino nero con quell’andatura che i francesi, nella loro infinita eleganza, definiscono “danseuse”.

Anche Altig però ha fatto lo stesso ragionamento e anche lui è alla ricerca disperata di quella spinta che gli farebbe vincere la corsa. Così, seguendo la naturale forza della disperazione, si alza sui pedali imitando l’incedere “danseuse” del suo avversario. È una gara nella gara.

Man mano che i metri passano il puntino nero appare sempre più nitidamente come una persona, e più si avvicina e più i due spingono sui pedali per andarsi a prendere quella spinta. A poche decine di metri entrambi capiscono che si tratta di un prete.

– Tu spingi me!

Grida Altig in un italiano stentato.

Zandegù smette per un attimo di contare ad alta voce e grida a sua volta.

– No. Spingi me.

Il sacerdote, che in realtà si trovava a passare di lì per caso con il suo canonico breviario in mano e neanche era a conoscenza del passaggio della corsa, rimane interdetto ed intimorito dall’arrivo di queste due furie verso di lui.

– Tu spingi me!

Grida ancora Altig dando fondo a tutto il fiato che gli era rimasto nei polmoni.

Il sacerdote, rassegnato, chiude il breviario e si appresta ad esaudire la richiesta del corridore. In fin dei conti è il primo che glielo ha chiesto.

– Fermo! – Gli intima Zandegù. – Spingi me sennò bestemmio! – minaccia.

Il povero sacerdote non può permettere che si nomini Dio invano e per salvare l’anima di Zandegù da Rubano dalle fiamme dell’Inferno lo spinge per un chilometro aiutandolo a vincere il suo primo ed ultimo Giro della Campania.

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